“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”: l’arretrato giudiziario civile e i metodi di risoluzione delle liti alternativi al giudizio
Secondo i dati diffusi dal Ministero
della Giustizia sono 3.321.149 i procedimenti civili pendenti in Italia sino al
primo semestre 2020. Fra questi quasi 85.000 sono in attesa di decisione in
Cassazione da più di un anno ed oltre 352.000 quelli fermi in tribunale da
oltre tre.
Numeri da capogiro, che portano il
cittadino a chiedersi se non vi siano percorsi alternativi a quello giudiziario
e spingono il Legislatore, nella impossibilità dello Stato di procedere
all’assunzione di personale in numero adeguato ad imprimere una accelerazione
al corso dei processi civili, ad introdurre strumenti ad effetto deflattivo: si
rende obbligatorio esperire procedimenti non contenziosi (o pre contenziosi) prima di poter accedere
alle aule di giustizia, incentivando nel contempo l’utilizzo dei medesimi
procedimenti su base volontaria quando non obbligatori, anche se in entrambi i
casi comunque riferiti esclusivamente a diritti che siano nella disponibilità
del titolare e dunque negoziabili.
Trattasi dell’arbitrato, rituale o
irrituale, della mediazione e della negoziazione assistita; i cosiddetti metodi
alternativi di risoluzione delle controversie o A.D.R. - Alternative Dispute Resolution - adottandosi
ancora una volta l’abitudine tutta anglofona di ridurre qualsiasi espressione
in acronimo e sacrificando la lingua italiana in favore di quella inglese.
A voler sintetizzare, potremmo dire
che l’arbitrato è una sorta di processo privato, disciplinato nel codice di
procedura civile agli articoli 806 e seguenti, attraverso il quale le parti,
volontariamente (prima dell’insorgere della controversia, ma anche dopo)
affidano la decisione sulla vicenda che le vede contrapposte non al giudice, ma
ad uno o più arbitri che emetteranno nei loro confronti il cosiddetto lodo, un
provvedimento avente valore di sentenza nel caso di arbitrato rituale e di
contratto in quello irrituale.
Di tutt’altra natura è invece il
procedimento di mediazione, nell’ambito del quale la ricerca della soluzione
definitoria della controversia non prevede la individuazione dei torti o delle
ragioni, bensì l’analisi dei reali interessi sostanziali che muovono le parti, onde
poterli soddisfare. È anch’esso condotto da un soggetto terzo rispetto alle
parti, il mediatore, è legislativamente disciplinato dalla legge n. 69 del 2009
e si conclude con l’eventuale accordo di conciliazione, che è atto proprio delle
parti, cui il mediatore partecipa soltanto.
Non va trascurato che se la
mediazione, come l’arbitrato, può avere natura volontaria laddove le parti liberamente
decidano di esperirla, essa è invece obbligatoria sia per alcune materie[1], non
potendo le parti, per il predetto scopo deflattivo, proporre la domanda
giudiziale prima di averla tentata, che ove essa sia richiesta dal giudice dopo
la instaurazione della causa.
Ancora differente è il procedimento
di negoziazione assistita, disciplinato anch’esso dalla legge (la n. 162 del
2014), contraddistinto dall’accordo che le parti, assistite dai propri
difensori, assumono per una collaborazione leale e di buona fede fra di loro
destinata alla definizione della lite. Volontaria o obbligatoria a pena di
improcedibilità della domanda[2] può
produrre l’effetto sperato solo in quelle occasioni in cui la buona
disponibilità reciproca consenta quantomeno la sottoscrizione di quel patto
iniziale (la convenzione di negoziazione), senza il quale il procedimento non
può nemmeno iniziare.
Il carico giudiziario delle corti
italiane e gli otto anni in media[3]
necessari per portare a completamento i tre gradi di giudizio possono far
pensare al cittadino che le soglie dei palazzi di giustizia assomiglino a
quelle dell’Inferno dantesco, ma la scelta se incamminarsi in un procedimento
alternativo al giudizio, in caso quale sia più conveniente e se vi sia o meno
la possibilità di sottrarvisi richiamano alla memoria, rimanendo nella metafora
letteraria, quella selva selvaggia e aspra e forte che tanto terrorizzò il
Poeta.
Se Dante ha goduto dell’aiuto di
Virgilio per tornare a riveder le stelle, è ambizione di ogni avvocato poter
fare da guida al proprio cliente nel districarsi in un tale ginepraio.
Daniela Borré
[1]Art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010:
condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di
famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno
derivante da responsabilità medica e sanitaria, risarcimento del danno
derivante da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di
pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari.
[2] art. 3 del d.l. n. 132/2014: domanda di risarcimento
del danno da circolazione di veicoli e natanti e di pagamento a qualsiasi
titolo di somme non eccedenti gli € 50.000,00 ove non si tratti di uno dei casi
di cui all’art. 5 comma 1-bis del d.lgs
28/2010 (mediazione).
[3] Secondo l’AGI un processo civile in Italia
che attraversi tutti e tre i gradi di giudizio (Tribunale, Appello e
Cassazione) dura in media otto anni. Servono infatti 514 giorni, in media, per
concludere il primo grado, quasi mille giorni (993, per la precisione) per il secondo
e ben 1.442 giorni per il terzo. In totale, dunque, poco meno di tremila giorni
(2.949), corrispondenti quasi esattamente a otto anni. (FACT-CHECKING, “L'Italia
è davvero il Paese europeo in cui i processi durano di più?”, 02 agosto 2019, La
Pagella Politica Di Agi)